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(di Simone Perotti)

Fondatore della Casa Pessoa, consigliere dell’Istituto Camoes di Parigi, direttore di riviste letterarie, vincitore di premi, ma soprattutto poeta, romanziere, uomo di teatro. Nuno Jùdice è un intellettuale a tutto tondo, prolifico come pochi, diciassette romanzi, oltre venti libri di poesia, e molto altro. L’ho incontrato in ambasciata, lo ritrovo a bordo dove viene per la nostra intervista. E sono lieto di incontrare un poeta, una persona semplice a dispetto del curriculum che lo precede. Parliamo in inglese, e anche qui perdiamo molto lungo la strada, soprattutto lui, che si vede vorrebbe padroneggiare la sua lingua in modo millimetrico, tipico dei poeti, ma nel “semplice” inglese si affatica.

Gli dico subito che mi ritrovo nella sua visione “impiegatizia” del lavoro di scrittura: ogni mattino, sempre, presto, come si andasse a lavorare. Sorride, capisce che non deve spiegarmi granché, condividiamo “il demone”, e come tutti i “posseduti” ci dedichiamo come vestali, come travet, come operai e monaci alla passione che ci governa.

“Parto da cose semplici, sempre. Un’immagine. Sempre qualcosa che riguarda la vita che viviamo ogni giorno, qualcosa di comune. Ma la poesia è filosofia, dunque poi la parola finisce coll’accarezzare i grandi temi, le grandi questioni della vita. D’altra parte, la poesia non può fare altro che questo. Anche perché la scienza non spiega tutto. E quel “mistero” lo può indagare solo la poesia. Pensiamo alla bellezza, ad esempio…”.

Secondo Jùdice la poesia non è un mondo isolato, è un ambito espressivo interconnesso. Il poeta non è uno che vive sulla luna. Al contrario. È immerso. E questo genera dei paradossi. Ad esempio quello della libertà: “Quando eravamo sotto la dittatura avevamo vincoli, c’era paura, ma nulla ci impediva di sentirci liberi. Era il contrario di oggi: oggi siamo liberi, ma il sistema mediatico ci asfissia, ci costringe, ci orienta. Sotto la dittatura eravamo molto più liberi”. Gli chiedo di ripetere, perché è una frase forte. Lui lo fa, e specializza il concetto: “C’era un vero potere intellettuale negli anni ’70, criticavamo il sistema, non avevamo la libertà. E tuttavia, è stata proprio la libertà a limitare il potere intellettuale. I media e il potere economico sono entrati pesantemente nel mondo intellettuale, per governarlo, per orientarlo. Io, se mi guardo e mi ricordo, ero molto più libero, come intellettuale, sotto la dittatura”. Accidenti. Un pensiero molto ricco, paradossale ma importante. “I nazionalismi sono conseguenza anche di questa perdita di potere e di impatto dell’intellettuale. E sono molto pericolosi. Occorre accelelare con tutto quello che può servire ad appartenere. O a svincolarsi. Il modello americano qui ha premuto, ma alla fine non ha attecchito, perché il Portogallo è un posto rurale, la gran parte della cittadinanza vive nelle campagne, e quel modello ha bisogno di cittadini per affermarsi. Altrimenti non ce la fa.

Io, ad esempio, vengo da un paese dell’Algarve, piccolo, rurale. E povero. Ma lì ero vicino al Mediterraneo. Io ero genovese per parte di padre, si vede dal mio cognome. Quando sono andato a Genova ho provato grandissime emozioni. I miei compagni di giochi, da fanciullo, guardavano oltreoceano, a New York, io guardavo a levante. E questa se vogliamo è un po’ la caratteristica del Portogallo, costretto sempre a guardare lontano, limitato nella vista e nel movimento da Spagna e oceano. Noi abbiamo dovuto salpare, navigare, andare. Ma andare è anche abbandonare, perdere, disinvestire”. Nuno mi racconta di essersi sempre sentito a casa nei suoi viaggi a levante, in Mediterraneo e in Europa. “Quelle differenze erano anche mie. Perché il nostro nemico è l’omologazione. Il suo contrario è il mare, che deve aprire, offrire possibilità, noi ne sappiamo qualcosa qui. La cultura continentale è ricca di solitudine, quella del mare di apertura e amicizia”.

Torna il tema del limite, della condizione “ligure”, della frattura, e poi quella dell’apertura, dell’opportunità. Penso che il concetto di ferita, lembo, taglio, lacerazione, facciano parte del Mediterraneo in modo stabile. Unirlo, ci riuscissimo mai, avrà dunque a che fare anche, molto, con la sutura. Mi perdo qualche istante a pensare all’ago, al filo, al nodo, al gesto della cucitrice. I poeti ti fanno volare nelle immagini, anche se non le citano, anche se sei tu a evocarle.

Nuno è a suo agio, si sente leggere due poesie. Poi me le fa leggere nella traduzione che lui stesso ha portato. Bello che sia venuto con due poesie, che abbia voluto farci sentire il canto della sua lingua. E farci capire. Prima di andare via vuole fare una foto. Poi, sotto l’ombrello e la pioggia, vedo che se ne fa anche una sul pontile, con dietro la barca. Mi ritrovo in pozzetto, subito dopo, pensando a quanto è bello ascoltare un poeta parlare.