IMG 6048

 

 (di Simone Perotti)

Capelli cortissimi, occhi azzurri un poco spaesati eppure saldi. Sguardo di chi s’è perduto qualcosa, forse un pezzo di sé, ma che poi ha trovato la via. E quella di Dulce Maria Cardoso è la via della letteratura. Non ha scritto molto, ma ogni suo romanzo è stato apprezzato, ha vinto premi, ha avuto varie traduzioni. L’ultimo, “Il Ritorno”, in modo particolare.

“L’ho scritto pensando a me, certo, alla mia vicenda personale, ma non è autobiografico in senso stretto. Ruy era un mio piccolo amico in Angola, per questo ho scelto lui come protagonista”.

I “retornados”, i portoghesi angolani cacciati dalla rivoluzione del 1975, sono la trama non solo di questa storia per Dulce: “L’Angola. Il Portogallo. Questi sono alcuni dei miei ambiti centrali. Ma il mio lavoro è tutto incentrato sul concetto di etica. Sono convinta che l’arte non mandi messaggi, debba sulle prime intrattenere, catturare l’attenzione, poi provocare il lettore a una reazione.

Chiedo a Dulce cosa pensi del Mediterraneo, visto che la sua vita si è mossa sulla direttrice tutta occidentale, nord-sud, tra due paesi atlantici. “La geografia non mi interessa. Neppure troppo i paesi che ho frequentato. Ho viaggiato per il Mediterraneo, ma non sono così coinvolta. A me interessano i luoghi dove risuono, a parte condividere, naturalmente, i comuni valori di questo nostro mondo. Bisogna anche considerare che il Portogallo è chiuso dalla penisola Iberica, e dal mare. E poi c’è la “sofferenza della lingua”, che tutti difendono, e che invece è una barriera importante”. E in effetti anche tra noi questa barriera è forte. Lei parla in portoghese, io in italiano, ci capiamo sostanzialmente, ma sono certo che molto ci sfugga. Penso al Libano, alla Liguria, ai paesi stretti e costretti a fare i conti col mare. Penso che sia una sorta di condizione diffusa in questo mondo. Avverto anche, nel nostro dialogo, che c’è una sorta di distanza. Dulce Maria Cardoso è tutta intenta a un suo profondo ragionamento identitario. Via dal Portogallo a pochi mesi, cresciuta in Africa, in quell’Angola da dove poi dovette fuggire ad appena dieci anni. A quel punto, di dov’era? In Portogallo trattavano i “retornados” come “non-portoghesi”, e loro, “non-più-angolani” erano rimasti orfani di un Paese. Anzi, di due. Per spiegarmi meglio la condizione unica, anomala, di questo fenomeno e di chi lo ha vissuto, Dulce mi parla di alberi: “La Jacaranda e la Tipuana (il Palissandro, ndr) sono piante sudamericane. Cambiano il modo di produrre foglie e fiori. Sono qui ma non sono di qui”.

Cerco di capire con lei qualcosa del sentimento nazionale di questo Paese. “C’è una sostanziale memoria imperialista. Per secoli siamo stati una superpotenza intercontinentale, colonialista, imperialista. Ora non lo siamo più. Qui non c’è una relazione pacificata col passato, il che ci mantiene concentrati su di noi. Poi è intervenuta la mancanza del pensiero, i problemi economici hanno fatto la loro parte. Regna molta indifferenza. Certo abbiamo una cicatrice sul corpo, che non si è ancora riassorbita”.

Parliamo di Pessoa, di Camoes, di quanto quel passato abbia influenzato il pensiero, per poi giungere alla gente comune. La “frattura portoghese” si avverte in ogni cosa. Ecco perché quello sguardo. Popoli in cerca di patria. Pensare che ne avrebbero una, proprio alle spalle.