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(di Simone Perotti)
Un’isola austera, ma vera; un luogo dove si affastellano leggende e storia, dai Fenici a oggi; un faro bello, importante, in uno spazio di mare con il blasone che molti mari non hanno; una donna che non si ferma se non quando è tutto andato in porto. Ecco, per capitoli, una bella storia di mare, marinai, santi, monasteri, simboli misteriosi, militari. La storia (e l’attualità) dell’isola del Tino.
Con un privilegio esclusivo e raro, abbiamo potuto visitarla ieri insieme ad alcuni amici spezzini, grazie al tenace attivismo di Corrado Ricci, giornalista e punto di riferimento culturale del Golfo dei Poeti, oltre che caro amico. Un vero dono, anche considerato che il Tino, l’isola di fronte alla Palmaria, nel Comune di Portovenere, non è stata accessibile per decenni, quasi verrebbe da dire “da sempre”, e solo un mese fa è stata riaperta, anche se solo per pochi giorni periodicamente e poi per visite speciali.
Riaperta, però, dopo essere stata ripulita dalla vegetazione lussureggiante che celava scale e sentieri rinascimentali, copriva resti di tombe e di monasteri olivetani, benedettini e di eremiti, e poi allestita in uno spazio museale all’interno del faro. Un lavoro immane, che ha coinvolto volontari, amici e parenti, persone volenterose, vigili del fuoco, associazioni, tutti accorsi all’invito della Marina Militare e di Elisabetta Cesari, fotografa appassionta, che un giorno, sul Tino, ha pensato alla scena che oggi vediamo: un’isola ritrovata, non più sepolta o proibita.
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Su questo scoglio sarebbe vissuto tra VI e VII secolo San Venerio, eremita e poi riferimento dei marinai, dato che era solito accendere fuochi per segnalare il pericolo notturno dell’isola ai naviganti. Fu lui, secondo la leggenda, ad aver introdotto a La Spezia la pratica dell’armo latino, la vela triangolare con l’antenna, ideale per risalire il vento assai più degli armi precedenti. Santo conteso, controverso, multiplo nelle sue valenze, che scelse il Tino per la sua bellezza naturale, per il romitaggio che garantiva, e su cui, nel tempo, venne eretto il faro attivo tutt’oggi, a centocinquant’anni dall’invenzione di Fresnel, quella che con lenti diagonali alternate consente a una piccola lampadina alogena di essere visibile fino a ventotto miglia.
Ieri abbiamo assistito da lassù, dalla torre oltre 110 metri sul livello del mare, a un tramonto mozzafiato e all’accensione del faro. Affascinante. Guardare la Corsica, Capraia, Gorgona, le Cinque Terre, il Golfo, Montemarcello, la Versilia in quel tripudio di colori credo sarà indimenticabile.
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In questo angolo di Mediterraneo io ci vivo, e dunque forse non faccio testo. Ma la bellezza che si vede dal Tino è quasi incontenibile. E se un osservatore si abbandona alle suggestioni della storia, dai Liguri Apuani ai Romani, dai Vichinghi che scambiarono Luni per la Città Eterna, ai poeti inglesi e ai narratori moderni, ogni bellezza si amplifica, cresce a dismisura.
Nel mio Atlante delle isole del Mediterraneo [Bompiani] descrivo la Palmaria. Chissà che in una prossima edizione non riesca a raccontare la storia anche del Tino.