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“Io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in sé stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione, ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero. Qui ad ad Atene noi facciamo così”.  – Pericle

Ed è così che accade ancora oggi. Atene è una città aperta al mondo.

Noi l’abbiamo visto a Psirri (pron. Psi-rì), quartiere del centro storico di Atene, a due passi dall’Acropoli, stretto tra Athinas, Ermou e Pireos. Un quartiere che fino a qualche tempo fa si attraversava di fretta, a testa bassa, con passo spedito. Aveva una pessima reputazione, perché ritrovo dei “maghes”, piccoli delinquenti di quartiere che terrorizzavano chiunque si trovasse a passare di lì.

E’ un quartiere antico, dalla storia elegante e prestigiosa. Nato nel periodo della dominazione ottomana, rappresenta uno degli otto rioni che costituivano la base della città intorno alla rocca dell’Acropoli e nel tempo è stato abitato prima da diplomatici e poeti, poi dalle nobili famiglie ateniesi, poi dai mercanti ebrei ed ora è un quartiere di transizione, multietnico e comunitario. Luogo di ritrovo della vita notturna ateniese, è una zona viva, vivace, ricca di locali, gallerie d’arte, studi di design e di piccoli ristoranti. Completamente fuori dai classici tour per squadroni di turisti, deve la sua particolare bellezza alle vestigia in decadenza degli antichi palazzi Liberty di inizio secolo, che si mescolano con sorprendente facilità alle opere sconvolgenti e di straordinaria bellezza dei moderni artisti di strada: gli street-writers.

Abbiamo visitato Psirri in una tranquilla domenica pomeriggio, quando il sole cominciava a perdere la sua forza e la luce cambiava dal bianco abbacinante ad una più dolce e fresca luminosità trasparente. Il modo più semplice per entrare nel quartiere è da Monastiraki Plaka; ci si volge con le spalle alla piccola chiesa e si prende la strada sulla destra, diretti verso Pittaki Street. E’ questa la strada di ingresso nel quartiere, stretta tra due palazzi color grigio sporco, in decadenza e scrostati. Arrivando, si pone più attenzione a dove mettere i piedi lungo il marciapiede dissestato che al “soffitto” di Pittaki che invece, appena si alza lo sguardo, lascia senza parole. Uno stupefacente sistema di illuminazione stradale composto da centinaia di lampade vintage, con i loro cappelli di seta e broccato che pendono dai fili tesi tra un palazzo e l’altro, forma un cammino di luce che percorre tutto il cielo sopra le nostre teste. Riconosciamo gli abat-jour “della nonna”, i lampadari del “salotto buono”, le piccole applique, i lampadari a goccia… e tutti sono appesi lassù, in un’alternanza di colori e di materiali. Questa bizzarra illuminazione è frutto in realtà di un vero e proprio progetto di design, ideato e realizzato da “Before Light” e dall’associazione no profit “Imagine the City”. Gli architetti e gli attivisti dei due gruppi hanno infatti invitato i cittadini di Atene “ad occuparsi della cosa pubblica” e a portare, e quindi donare, le proprie lampade fuori uso alla strada. E’ così nato un nuovo concetto di illuminazione, che ha cambiato l’immagine di Pittaki in senso sicuramente positivo. Riprendiamo
a camminare, scendendo leggermente e seguendo il tortuoso incrociarsi delle piccole e strette strade dell’epoca turca, ed ecco che ci fermiamo di nuovo: colori e immagini arrivano dai muri che costeggiano le stradine. Si tratta di graffiti e murales dipinti dagli artisti di strada di Atene. I murales di MaPet, Absent, Pol, WD, iNo, e tanti altri dei quali non riusciamo a riconoscere la firma, ricoprono i muri scrostati delle case, degli uffici, delle piccole fabbriche del quartiere. Nascondono, mistificano, traggono spunto, raccontano. “E’ una forma di resistenza, un modo di esprimersi, spesso sono una denuncia” ci dice Maria Peteinaki, attivista dell’associazione
Alternative Tours of Athensche ci ha accompagnato durante il nostro giro. “Ultimamente la municipalità ateniese ha, in un certo senso favorito, il proliferare di questi graffiti, evitando di cancellarli, e anzi assecondando la vena artistica degli street-writers. Per molti di loro, però, è un tentativo di neutralizzare e controllare la protesta”. E’ interessante leggere il significato di quei disegni, cercare di indovinarne il messaggio, o provare a riconoscere un volto, una parola, un’immagine nascosta nei tratti colorati dipinti tra le crepe. Restiamo stupefatti davanti ad opere dipinte a centinaia di metri in alto sulla strada, in un’ardita ricerca di spazio da riempire.

Si cammina e ci si perde nel dedalo di piccole vie che si aprono in improvvise piazzette. Si cammina e si arriva davanti ad una porta di ferro, una saracinesca alzata. C’è odore di legno e di polvere. C’è un palcoscenico, ci sono le luci, i cavi elettrici. C’è una platea di sedie rivestite di cuoio rosso. C’è silenzio. E’ lo storico Teatro Embros. Occupato dal collettivo Mavili dopo i sei anni di chiusura seguiti alla morte del suo proprietario, durante gli scontri del 2012 il teatro Embros è diventato il simbolo della resistenza civile, un polo d’attrazione per gli artisti, per il quartiere, per gli extracomunitari e per chiunque volesse esserci. Si faceva teatro indipendente, arte, coreografia, studio. Era una micro-comunità artistica che si era impegnata nel ruolo di condividere, includere, consolidare. “La crisi ci ha portato verso un dialogo orizzontale, ci ha spinto a guardarci negli occhi alla stessa altezza, ci ha costretto ad incontrarci” – ci dice Maria, mentre racconta del teatro, dello sgombero forzato, della sua chiusura, della minaccia di privatizzazione. Usciamo dall’Embros con rispetto, in silenzio. Sul muro davanti a noi, il volto triste di un clown ci sorride del falso sorriso di Joker.