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(di Simone Perotti)

“Un tempo questi palazzoni sul mare non c’erano. La brezza di mare sfilava per strade e vicoli, e rinfrescava la città. Oggi tutti vogliono la vista sul mare…”. Ha un tono un po’ triste nel ricordare la Tel Aviv del passato l’architetta Nitza Szmuk, nota professionista, una delle principali artefici della dichiarazione della “Città Bianca” patrimonio dell’UNESCO. Le chiedo se quei palazzi siano anche un ostacolo a “vedere” e “pensare” il Mediterraneo. “La gente passa ore su questa spiaggia bianca e lunga che prende tutta la città. Ma credo che nessuno pensi di trovarsi sul Mediterraneo. Qui siamo tanti e tutti diversi: gente che viene da tradizioni, culture, storie, luoghi, nazioni diversissime, dall’Ungheria, il Marocco, la Polonia, l’Iraq… e ognuno si è portato dietro la sua terra, o il suo mare. È molto difficile, fuori dal tema unificante dell’ebraismo e dello stato di Israele, unirsi intorno a un concetto unico, o a un sentimento comune. Tanta gente convenuta nello stesso posto ha limitato il nostro potenziale pensiero del Mediterraneo, che però dovremmo conoscere, vedere di più, studiare di più”.

“Quando lavoravo alla Città Bianca”, prosegue Nitza, riprendendo il filo del racconto delle sue attività “mi sono ispirata a Casablanca, Miami, Sabaudia, esempi apparentemente diversi tra loro, eppure così utili come ispirazione. Qui hanno lavorato tanti architetti di tutto il mondo, tra cui molti francesi, e moltissimi italiani. Ognuno ha dato un suo contributo di idee e creatività. Un fenomeno di immigrazione delle idee. Il contrario della globalizzazione, a ben vedere, che invece è un fenomeno terribile”. Le chiedo cosa sia fare architettura qui: “Non è facile. Qui creatività, arte, cultura, sono argomenti poco percepiti. Questa è una tecnocrazia, se resta tempo e denaro, va bene, ma prima viene l’essenziale. Un architetto, qui da noi, deve anche essere molto bravo non solo a disegnare, ma a convincere”.

Nitza mi racconta che qualche tempo fa è venuto qui il sindaco di Firenze, per ricordare il contributo degli israeliani nel salvataggio delle opere degli Uffizi minacciate durante la grande alluvione. Il sindaco (che non mi risulta essere un oratore irresistibile, ndr) ha tuttavia parlato un’ora intera del valore della cultura, dell’arte, del significato sociale e perfino economico della dimensione umanistica degli studi e dell’impresa. Lei e tutti gli israeliani architetti presenti, pare fossero rapiti. “Mai e poi mai noi potremmo sentire un politico fare discorsi del genere!”. Questo aspetto, mi sfuggiva. Nitza mi spiega la sua visione: “Tutto ruota intorno alla formazione umanistica, che qui è molto emarginata, sia al liceo sia nelle università. Una tecnocrazia ha bisogno di esperti, tecnici, gente che ha formazione tecnologica e scientifica. La conseguenza di questo è una certa vocazione a distruggere invece che conservare. La città dall’89, da quando sono venuta a vivere qui, è migliorata, ma non dovunque. C’è un po’ più di sensibilità alla conservazione e alla tutela. Qui però non è come in Italia, c’è poco rispetto per lo spazio pubblico. Le case qui magari sono belle, ma lo spazio comune è sacrificato qualitativamente”.

Le chiedo le cause di questi aspetti, che hanno un impatto sull’urbanistica e l’architettura, dunque sulla qualità della vivibilità della città: “La gente deve studiare il bello, l’arte, e dovrebbe viaggiare, andare in Italia, capire come sono diverse le altre nazioni e le altre città. Qui la storia dell’arte non è nei programmi, e questo ha delle conseguenze. Non siamo educati all’estetica, ma alla funzionalità. Siamo una società pragmatica. Arte, letteratura, architettura, vengono messe sistematicamente da parte. E gli uomini di cultura si spendono pochissimo per questo, che è una vera piaga. Poi, sai, qui gli studi costano moltissimo, dunque poi devono rendere. Ma questo cambia il tuo modo di ragionare, e perfino di essere. Gli stessi leader sono da sempre di derivazione e provenienza militare, che valuta tutto in base a rischi/opportunità, non certo bello/brutto. Siamo una società pressata, pressante, tanto che i giovani finita la scuola superiore fanno il militare obbligatorio e poi partono per un anno, vanno in Sudamerica o in India. Sai perché? Per non scoppiare…”. 

“La vita qui è incalzante, l’entrata nel meccanismo produttivo parte ancora dalla scuola. I genitori stessi sono ambiziosi, e questo passa ai figli”. Le chiedo della questione ambientale, che sento serpeggiare dovunque ma con poca applicazione. Lei, come a confermarmi quel che ha appena lamentato, prende la mia domanda non dal versante dei valori ambientali verso la natura, ma da quello del comportamento pratico: “Fuori città c’è più senso civico, in città per nulla. C’è poca cura per le cose e per la natura qui. Vedi, si può essere anche decadenti, culturalmente, ma c’è una certa dignità nella decadenza. Qui per nulla”. Frase forte, ma molto importante. Mi fa collegare tra loro molti aspetti della vita degli israeliani, che comprendo meglio. “Qui, con tutto questo sole, il fotovoltaico è praticamente assente. Il solare termico è invece obbligatorio, ma qui si pensa a trivellare, a cercare fonti fossili, e per dissalare l’acqua, si consuma un mare di energia”.

Le chiedo se la città le piace, se condivide la tendenza che ha preso nelle costruzioni e nella vivibilità. “La città cresce, ma cresce verso l’alto. In centro, dopo la dichiarazione dell’UNESCO, hanno impedito la costruzione di grattacieli nuovi, e questo è un bene. Ma hanno consentito l’innalzamento di tre o quattro piani dei palazzi attuali. Anche qui, la valutazione è duplice: da un lato quei quattro piani fanno più ombra, e col caldo che fa qui è un bene, ma architettonicamente…! Quanto alla città tradizionale, Tel Aviv è nuova, e il quartiere Bauhaus è il meglio che troviamo, ma Yafo (Giaffa, ndr) è antica, araba, e un tempo c’era osmosi tra l’architettura araba e quella israeliana, ma parlo degli Anni Trenta. Poi gli inglesi la distrussero e fu ricostruita, anche bene credo. Non c’è vita, sulla collina, gallerie e negozi, anche belli. La vita è dietro, nella piana verso l’interno, dove c’è il mercato. Gli artisti stanno su e i mercanti giù. Non so rispondere bene alla tua domanda se questo mi piace… Io credo che stiamo tralasciando alcune cose importanti. Purtroppo, io sono arrivata tardi, e molto si è perduto. Credo che da qui a vent’anni la gente si pentirà”.