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(di Simone Perotti)

Per raggiungere Nedim Bora Hazar, regista, attore, musicista, navighiamo per un’ora e mezza da Kabatas, tra Tophane e Ortakoy, fino alla seconda maggiore delle Isole dei Principi, Bourgazada. Quando sbarchiamo è lì ad accoglierci, occhiali scuri, montatura verde spento, capelli bianchi luminosi, il sorriso sempre sulle labbra, jeans e camicia blu. Un bell’uomo, orgogliosamente sui cinquant’anni, qualcuno di più forse, occhi del bambino curioso e divertito.

Subito si scusa: “Ho due amici curdi qui, un bambino e suo padre. Erano in un mio docufilm, e ora sono qui perché il piccolo ha un tumore, sta facendo la chemio, gli do una mano, abbiate pazienza”. E ride. Un bambino con un cancro e lui ride divertito. Ma capiamo subito che non si tratta di superficialità, neppure di leggerezza gratuita. Nedim Bora Hazar è uno di quegli uomini che cerca ogni cosa buona dal groviglio dell’esistenza, si emoziona, si eccita, e come vedremo nel corso della giornata che passiamo insieme, non perde mai profondità mentre sorride alla vita. Una sorta di ossimoro, di paradosso, ma se avrete modo di conoscerlo parrà lo stesso anche a voi.

Pranziamo insieme. Pollo in umido e bulgur, con zuppa di lenticchie. Lui saluta tutti, un americano che vive sull’isola per tradurre un poeta molto amato in Turchia, i passanti con cui scambia una parola e un sorriso. Ogni tanto, per non far sentire emarginati i suoi ospiti curdi, scambia con loro qualche parola, un sorriso. Prima di condurci a casa sua ci fa fare un giretto per l’isola, ci mostra una chiesa elevitica, che fa aprire per noi: “Vedete? Non sono iconoclasti, hanno dodici imam, che ricordano i dodici apostoli, le donne ballano con loro, non si coprono col velo. Ma sono islamici!”. Poi una chiesa cristiana, che non vediamo all’interno perché Maria non c’è “forse è andata a Istanbul a fare compere”.

Sull’isola non ci sono macchine, solo carrozzelle a doppio tiro di cavalli. Ci fa salire su una di queste per risalire a casa: “tranquilli, è un mio amico!”. Tutto, intorno a Nedim, pare viaggiare leggero, possibile. Ci sono uomini che spargono armonia, ed è una vita che li ammiriamo.

Nel bel salotto con vista sul mare e sulla moschea ci sediamo e iniziamo a chiacchierare: “Su queste isole non si può costruire. Altrove, come sappiamo, si costruisce fin troppo. Ma d’altra parte, qui la gente è tantissima! Pensa che solo i curdi a Istanbul sono quattro milioni!” e naturalmente si fa una bellissima risata. Intervistare quest’uomo fa bene, anche se non si capisce esattamente il perché. Gli chiedo di lui: “Beh, famiglia meticcia, come capita spesso in Turchia. La mia famiglia è del Mar Nero, ma anche di Salonicco e del Caucaso, e c’è anche l’Australia, dove sono stato anni da piccolo, poi sono tornato e sono andato in Germania, Poi di nuovo a Istanbul, per cercare lavoro!” e ride di gusto. “Sono stato sposato tre volte, e la mia moglie attuale si chiama Ulrike, è tedesca. Ho studiato per fare l’attore in Germania, e ho un po’di film e spettacoli teatrali all’attivo, poi ho fatto il musicista in un gruppo che ha avuto un buon successo, abbiamo viaggiato mezzo mondo da Alma Ata a Londra per i concerti. Poi il gruppo si è sciolto e mi sono messo a seguire seminari sul movie-making ad Amsterdam per diventare regista. Ed eccomi qui”.

Vita interessante. Non senza problemi: “Sì, ho fatto una serie di documentari in giro per la Turchia. Una puntata, girata nel paese di Erdogan, non è piaciuta al Presidente. Io e il direttore della televisione siamo stati licenziati” e una bella risata. Gli chiedo come mai non sembri addolorato, arrabbiato. “Beh, lo sono stato sulle prime, ma poi insomma, me lo aspettavo, ci stava. Anche se nel documentario non c’era proprio niente che non andasse, solo la gente che parlava liberamente e ovviamente si lamentava di questo, di quello, come fa sempre la gente davanti a un microfono. Ma non gli è piaciuto. Ha chiamato lui in persona!”. Però! Una medaglia per uno che voglia fare il militante. Anche se questo ruolo, che pure si attaglia a Nedim, suona strano addosso a uno come lui.

“Io in Germania stavo sempre con gli italiani, con i greci. Magari ci bisticciavamo continuamente, ma quando arrivavano i tedeschi, eravamo uniti, sempre! Il Mediterraneo per me è dovunque, me lo sono sempre portato dietro. Guardate dove vivo alla fine!” Ci racconta che per lui forse la musica è la migliore metafora della mediterraneità. Sempre un po’ triste, malinconica, nostalgica “però poi c’è la Taranta e via, tutti a ballare!”.

Gli chiedo di dove si sente: “Io sono dell’ovest, assolutamente occidentale. Però, però…anche sempre molto mediterraneo. Ma va adetto che quando mi occupo dei miei compaesani curdi, sono anche io mesopotamico. Con un arabo, invece, direi che ho poco in comune. Dunque, insomma, la cosa si fa complessa”.

Gli chiedo cosa pensi dell’UE. “La odio l’UE! (ridendo, ndr) Due pesi e due misure su tutto! Con il mancato ingresso della Turchia ha perduto un’occasione storica! Rimarrà negli atti della Storia questo errore. Ma come, c’è la Bulgaria, c’è la Romania, e la Turchia no?!” Risata sonora. Stavolta rido anche io, non me ne vogliano i fratelli rumeni e bulgari. “Noi abbiamo Erdogan grazie all’UE”.

Gli chiedo cosa pensi della progressiva islamizzazione del Paese. “L’islam è lo stesso da secoli. E ha una faida interna durissima. Deve riformarsi, deve evolversi. La chiesa Cristiana è passata attraverso scismi e riforme e controriforme. Il Cattolicesimo si è riunito in una serie di concilii riformatori, ed è cambiato dai tempi della Santa Inquisizione a oggi. L’Islam deve fare altrettanto, credo. Anche se questo c’entra poco. Io e un islamico possiamo tranquillamente coesistere, non c’è alcun problema”.

Gli chiedo se sia preoccupato, nella sua posizione e con un Paese che tende ad andare verso una direzione potenzialmente complicata. “Certo che lo sono. A un certo punto dovrò andarmene se le cose cambiano. E sarebbe un vero peccato, avete visto che meraviglia qui?!”. Ma gli intellettuali che fanno, ci sono, hanno un ruolo? Non vorrei che poi dovessero pentirsi di qualcosa a giochi fatti. “Guarda, del problema dei curdi, ad esempio, non se ne parlava. Gli intellettuali fanno fatica a entrare sulle questioni spinose, come le minoranze. Ora se ne parla di più. Lo stesso movimento di Gezi Park non è riuscito a unirsi col movimento curdo. Ed è un peccato. Sai, qui tra poco si vota. Il 6 o 7 giugno. Se il movimento di Demirtas arriva al 10% qui cambia tutto, perché l’AKP di Erdogan perde la maggioranza e tutto va negoziato in Parlamento. Siamo vicini a una svolta, credo”. Demirtas, devo ricordarmi questo nome. Molti mi segnalano questo leader curdo come un astro nascente, dotato di carisma e credibilità.

“Guarda, qui i discorsi stanno a zero. Noi turchi dobbiamo affrontare i problemi. E’inutile far finta che non ci siano. Solleviamo il tappeto, guardiamoci sotto, e affrontiamo i problemi. Per noi è essenziale fare pace con la questione della nostra identità. O si passa da questo punto oppure non se ne esce”. Lo credo anche io.

Ci salutiamo e ci allontaniamo navigando nel freddo grecale del Bosforo. Splendida giornata. Nedim, dopo l’intervista, ci ha detto di accompagnarlo. Ha fatto volare il suo drone con la Go-Pro, quello che usa per fare immagini aeree. Lo fa per far divertire il bambino curdo, che si chiama Memet, un occhio chiuso, la tempia destra tutta senza capelli, lo sguardo triste, che tuttavia col drone, per un istante, riprende la luce che dovrebbe avere il volto di un bambino. Curdo o non curdo che sia.