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(di Simone Perotti)

Gari e Jali arrivano a bordo di Mediterranea da soli, uno dopo l’altro. Ma vederli insieme quando si incontrano, si baciano e si stringono la mano, si siedono in pozzetto sorseggiando un caffè, dà subito un’idea di gioia e di festa. Uno somiglia a Smigol, il genietto indeciso tra bontà e cattiveria del Signore degli anelli, l’altro ad Abraracourcix, il re gallo di Asterix. Naturalmente non sono affatto due uomini caricaturali, uso questi due personaggi della finzione solo per inquadrarli fisicamente, uno magro e pelato, l’altro robusto e impettito. Al contrario, sono due uomini molto piacevoli, disponibili, divertenti, con cui ogni formalismo smette di esistere al primo dialogo. Del resto, sono due dei cantanti del gruppo, folto e pantagruelico, dei Massilia Sound System, cantanti provenzali, occitani, che hanno scelto di usare il loro luogo e la loro terra per seguire un percorso artistico longevo, divertente, di grande coinvolgimento.

Jali parla molto bene l’italiano, nipote di palermitani, grande amante del Salento. Gari, anche lui nipote di italiani (Gari è il diminutivo di Garibaldi, che è effettivamente il suo nome) capisce l’italiano, ma parla solo francese.

Noi siamo figli del Ragamuffin, dell’MC” mi spiega Jali “cioè di quel mondo di musica messa su con dischi e mixer per costruire serate, per ballare, per fare festa. Il linguaggio e il ritmo del Ragamuffin, che è la versione giamaicana della musica reggae/rub-a-dub, erano particolarmente adatte all’uso dell’occitano, il provenzale, e questo ci dava possibilità espressive straordinarie”.

Massilia e Ragamuffin nascono effettivamente nello stesso momento, nella metà degli anni ’80. “Dagli MC, dalle sessioni di musica su basi riprodotte, si è passati al parlato sulla musica secondo i ritmi hip-pop, e questo ha reso tutto più interessante, perché con le parole si potevano passare messaggi. E cantare in occitano era un messaggio già di per sé. Ci univa a quel genere anche un altro fattore: la lingua ufficiale della Giamaica e quella popolare non coincidono. Esattamente come qui. Il francese e l’occitano sono nella stessa relazione. Pescare dal provenzale era come ritornare alle origini della nostra località di appartenenza”.

Gari mi spiega che il Provenzale ha settato le regole, il codice dell’amore. E anche della donna. Ricordo bene tutto questo, la poesia amorosa di Peire d’Alvernha, la donna che sarebbe diventata Madonna. “Fino a quel momento la donna non era niente, non aveva alcuna immagine di valore, era lì, in un angolo, poteva essere presa e trattata come si voleva. Ma con i trovatori diventa un’icona, e l’uomo un essere che non può fare altro che pregarla, sospirarla, amarla, cantarla”.

Chiedo se, tuttavia, non sia un po’ anacronistico parlare di localismi mentre si cerca di distruggere le barriere, mentre sosteniamo, almeno da certe parti, che i confini debbano essere abbattuti. Faccio l’esempio dei catalani, che sono qui vicino, e che guarda caso parlano l’unica forma di occitano ancora vivo dei nostri tempi. Jali mi risponde in modo interessante: “Ma noi siamo francesi, mica lo sto negando. A noi va benissimo l’unità della Francia, non vogliamo essere una nazione a se stante. Però rivendichiamo rispetto per lingua e costumi nostri. Vogliamo solo non perdere contatto con essi e vogliamo rispetto”. Capisco che, dunque, in tutto questo c’è ben poco di politico, semmai di identitario. Un punto su cui dovrò certamente tornare.

“Il risultato della rivoluzione francese è stato per forza di cose il centralismo. E la mancanza di rispetto e di salvaguardia per il localismi ne è la inevitabile conseguenza”. Gari interviene: “Il nostro lavoro è quello di trovare il senso e il valore della nostra tradizione, e di usarlo per costruire quello che potremmo chiamare deuxieme regarde, cioè un altro punto di vista, che vuol dire maggiore libertà, maggiore capacità espressiva e d’interpretazione”.

L’identità” prosegue Jali “è il vero simbolo di Marsiglia”. Obietto che quella identità mi sembra soprattutto basata sulla diversità “Certo” commenta “una diversità che va mantenuta però! Noi non rappresentiamo la cultura ufficiale, dunque non siamo dall’altra parte per un immigrato, uno straniero. Siamo più vicini a lui, gli offriamo una mano tesa, un’altra chance, non solo la Francia dunque”. Un po’ contorto, ma ascolto con grande interesse.

“La Francia non ha recepito la Carta Europea delle Lingue Minoritarie, ad esempio. E credo neanche l’Italia. La faccenda ha a che fare con l’essere noi stessi stranieri in casa nostra, e allora noi coltiviamo la nostra estraneità”. Io questa storia delle nazionalità, delle matrici culturali primigenie, delle provenienze locali, delle specificità che si pongono come alternativa, non la capirò mai. Sono così affascinato dalle differenze che vorrei non averne nessuna, partecipare delle peculiarità di tutti. Quando incontro uno diverso da me non mi viene di tirarlo nel mio mondo, vorrei essere io cittadino del suo. Ma andiamo avanti.

“Io  vivo in un quartiere italiano” racconta Jali “vicino ho un quartiere algerino. Per andare a scuola, da piccolo, ne attraversavo anche uno armeno. Quando arrivavo in classe avevo fatto il giro del mondo”. Appunto! Mi verrebbe da dire che questa differenza fa parte della loro vita. Se cantano in occitano tutta quella gente non li capisce “È vero, ma sapessi come cantano, e poi alla fine capiscono lo stesso!”. Comincio a perdermi, anche perché dopo un istante mi pare che entriamo in contraddizione: “Noi siamo diversi. Lo straniero ha uno sguardo diverso dal mio. Nel mediterraneo tutti pensano di essere il Mediterraneo, ma il Mediterraneo è Roma, e noi siamo latini”. Di latinità mi ha parlato anche Leydet, e su questo devo riflettere.

Insieme sembrano aver preso gusto alle definizioni: “Due capitali, una per l’Europa, Bruxelles, e una per il mediterraneo, Marsiglia”. Ma dunque siamo unibili, siamo simili! “Macché simili, qui tra ebrei, mussulmani e cristiani siamo diversissimi!”. Mi perdo ancora.

Provo a domandargli se non sia un po’ più ampia la visione che ci attende, e cioè se invece di chiuderci nell’occitano, nel siciliano, nell’ebraico, non dovremmo aprirci all’intero Mediterraneo, vera macroterra nostra, vero retroterra di differenze comuni. Io penso al Sabir, altro che all’occitano. Ma la reazione è ferma: “Che c’entriamo noi coi libanesi? Noi siamo occidentali, cristiani, romani, noi veniamo da Roma! Roma ha creato la Provenza”. Veramente c’erano i liguri, prima dei provenzali e dei romani e dei celti etc etc, ma non obietto nulla, voglio ascoltarlo. “Tutti si chiudono, è normale. Hanno paura dello straniero. E lo straniero, a sua volta, non sa come fare, ha paura pure lui. Io ho due culture, una francese, perché sono nato qui. L’altra me la scelgo. La cultura ce la scegliamo. Non siamo a casa dovunque, al contrario, siamo a casa dove scegliamo di essere”. Anche qui non dico nulla, ma vado un po’ in confusione, anche perché scegliersi la cultura mi piace moltissimo, solo che non riesco più a capirci niente tra identità, origini, cittadinanza, appartenenza, roma, Peire d’Alvernha, il mio professore di filologia dell’università, e quando finiamo in Salento capisco che non devo capire, ma solo prendere tutto come mi viene offerto: “Io sono sempre in Salento” mi dice orgoglioso Jali “Ci hanno presentato i Sud Sound System, che sono fantastici. Parlo coi vecchi che conoscono tutte le nostre canzoni. Bellissimo. Sto sempre da quelle parti”. Mi pare di capirci qualcosa per un istante e gli dico: “Ma certo, siete greci a Marsiglia, come loro!” ma lui mi guarda come se gli avessi detto qualcosa in cinese, e lì mi ricordo che parlava di Roma come madre, e ripiombo nel caos. Entrambi devono accorgersene, e in maniera del tutto inaspettata cominciano uno strano elenco: “Cipolla, olio d’oliva, grano (l’hanno portato i Romani), ceci, fave, vino, pesci. Ecco, allora, se parliamo di Mediterraneo partiamo da qui. Con questa lista sul tavolo possiamo parlare”. Il caos adesso è totale. Sembra di essere precipitati nel loro grammelot confusionario, come stessero cantando, come fossimo a un loro concerto. Impossibile uscirne senza ballare o ubriacarsi.

Poi di colpo, una frase seria, in cui finalmente mi pare di orientarmi: “Non siamo un popolo, siamo una comunità”. Molto interessante. Anche se non ho capito niente.