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(di Simone Perotti)

A vederli sul molo, mentre si avvicinano alla barca, sembrano una tipica boy-band, in salsa mediorientale. Understatement nei vestiti, apparentemente casual, capelli ben curati ma senza alcun particolare vezzo. 

Occhiali scuri per due di loro. Di fronte alla passerella per salire a bordo, due rimangono impietriti. Dovrò aiutarli dando loro la mano, come temessero del proprio equilibrio. E invece, i Mashrou’ Leila, band alternative, pop-rock o indie, a seconda di come vengono definiti o si definiscono loro stessi, di equilibrio ne dimostrano molto, quasi troppo.

Nati nel 2008 quasi per caso, in un concerto universitario più o meno improvvisato, i sette elementi di allora, oggi cinque, si sono trovati immediatamente famosi. I loro testi irriverenti, le tematiche della sessualità e della società giovanile, argomenti come i rifugiati e le convenzioni di una società rimasta indietro nel tempo, hanno fatto di loro dei simboli, e causato non pochi problemi con il pensiero dominante. Definiti “la band della primavera araba libanese”, hanno fatto concerti in tutto il mondo, e sono stati celebrati, non senza un certo gusto dell’esotico, da critici musicali e giornalisti di molti paesi europei. Ma senza perdere la testa, anzi. Fin dalle prime chiacchiere ho la sensazione che alcuni versi scritti qualche anno fa fossero più fuori dai denti di come oggi desiderano definirsi.

Per evitare imbarazzi, chiedo subito loro cosa pensino del Mediterraneo, quale relazione abbiano con questa porzione di mondo. Hanno forse un attimo di esitazione, abituati a essere intervistati come artisti musicali, ma si lasciano convincere volentieri su un nuovo terreno: “Il Libano è lungo e stretto, la costa è lunghissima. Eppure, a Beirut, ma non solo, basta che ti trovi a due vie dal lungomare e puoi dimenticarti del Mediterraneo. Sarà per questo che qui non mi pare che abbiamo un’idea del Mediterraneo così condivisa. Che siamo mediterranei non sembra una cosa diffusa.”

Rispondono insieme, senza accavallarsi, sono ordinati, si esprimono in un ottimo inglese, sono tutti laureati all’American Lebanese University, dove studiavano insieme e si sono uniti in gruppo.

“E poi qui il mare lo vediamo sempre meno. Le coste sono state deturpate, distrutte, privatizzate. Per chilometri al mare non puoi proprio accedervi, o se trovi un posto per andare a fare un bagno finisce che devi pagare un prezzo altissimo perché è uno stabilimento esclusivo”.

Mi raccontano della sensazione di chiusura in un Paese con confini segnati, dal dopoguerra, citano tra le cause di una scarsa identità mediterranea i postumi del colonialismo francese. Poi passano al privato, finalmente: Hamed Sinno, parenti in Italia, mi spiega che è cresciuto a Beirut ma “il mare non mi appartiene”. In effetti, anche musicalmente, per quanto usino un violino e le chitarre in modo abbastanza folk, sembrano ispirarsi più alla musica indie che alla world music mediterranea. Quando chiederò loro, più avanti, se cerchino di fare musica di quest’area, pur nell’innovazione, mi risponderanno freddamente.

“L’idea di un Mediterraneo unito? Una cosa affascinante ma impossibile, troppo difficile. Non andiamo d’accordo col vicino, come possiamo stare tutti insieme sotto un unico ombrello?” Gli faccio notare che la disputa col vicino, se vista dall’alto di una grande ispirazione, potrebbe sembrare più risolvibile. “Non sono piccoli i problemi col vicino, non credo sia possibile risolverli solo spostando la visuale dall’alto” risponde secco Hamed “Sarebbe bellissimo, ma come si fa? Meglio pensare a cose più piccole ma concrete: ad esempio la salvaguardia dell’ambiente. È mai possibile che in Libano si cerchi il petrolio e non ci sia un pannello solare? Villaggi che hanno tutto questo sole ma solo tre ore al giorno di energia… questo fa venire il voltastomaco”. Provo a spiegar loro il valore di grandi idee, forse sogni irrealizzabili, ma capaci di trainare la fantasia e l’ispirazione della gente. Mi paiono poco inclini al volo, mi riportano sempre a terra. Sono concreti, in questo mi colpiscono, non perdono l’apertura alle idee ma sempre recuperando l’opportuna altezza del suolo. 

“Abbiamo viaggiato nel mediterraneo” mi dice Firas Abou-Fakher, faccia da studente, occhi vispi e acuti, volto aperto che ispira fiducia “dalla Spagna all’Italia, dalla Tunisia alla Francia, a Istanbul. Posti molto diversi tra loro. Forse abbiamo trovato risonanze con il nostro mondo a Tunisi, non ad Istanbul”. “Quello che abbiamo in comune nel Mediterraneo sono i fucili e le pistole” trasalisco, stuzzico Hamed dandogli del pessimista. Lui si corregge: “Intendo dire che ciò che ci accomuna è spesso la parte peggiore, le differenze sociali ed economiche”. Torna spesso la parola economia, business, mentre parlano. Senza alcuna particolare accentuazione, né negativa né positiva.

I loro versi, letti qua e là, sono a tratti molto espliciti, a volte più metaforici, ma sempre acuti: Senza milioni, senza vestiti. Mi hai promesso una rivoluzione. / Un principe e un re ma con due diverse regole, non riesco a seguire due direzioni diverse. /  Si può guidare o essere guidati, la scelta è tua. Chiedo dunque loro se gli intellettuali, gli artisti, stiano facendo bene il loro lavoro per far sorgere domande, per far riflettere, per essere interpreti del cambiamento. Ne nasce una discussione piuttosto accesa, che mi colpisce un po’. Sembrano desiderosi di distinguere, di smarcarsi dal loro ruolo, mi pare facciano un po’ di confusione tra responsabilità dell’artista – “non ha nessun compito, scrive e basta, poi è il pubblico che decide” – e quella del pubblico. Credo abbiano avuto problemi per alcune loro posizioni, e mi convinco che oggi siano più cauti nel definirsi come portavoci di un pensiero o paladini di idee troppo scomode. Ma credo non rinunceranno ad andare avanti per la direzione che hanno intrapreso.

Siete ancora convinti di voler autoprodurre tutti i vostri dischi col crowdfunding? Temete ancora che l’industria discografica possa tentare di imporvi dei compromessi?” Mi rispondono di sì, senza alcuna aggressività, senza fare troppo una bandiera anche di questa loro posizione, che senza dubbio ha un impatto “politico”. Voci bene informate mi assicurano che il padre di uno di questi giovani artisti è un pezzo grosso di “Leo Burnett”, il colosso pubblicitario internazionale, e che forse qualche consiglio o qualche strumento per la comunicazione venga loro da quella parte. Non so verificarlo, e devo ammettere che, anche se fosse, l’immagine di autenticità e di spontaneità della band non ne viene affatto intaccata.

“Qui il 10% della gente possiede il 90% della ricchezza. Le idee romantiche servono a poco, serve cultura ambientalista, ad esempio, idee concrete, dal basso”. Resto colpito di tanta praticità nel corpo di giovani uomini. “Qui le cose stanno cambiando, del resto. Tra cinque anni, anzi, tra un anno, sarà tutto diverso. Stanno esplodendo tante piccole iniziative, l’opzione del pensiero socialista è finalmente possibile”. Trasecolo di fronte alla parola “socialista”. Chiedo se queste siano cose che pensano in tanti. Hamed ride di cuore: “Oh no! Roba da chiacchiere di una minoranza, m non si è mai parlato così delle idee marxiste e socialiste. Qualcosa sta cambiando”. Interessante. Mentre il mondo si perde al pensiero dell’Islam radicale, qui un giovane artista parla di socialismo.

Chiedo, infine, cosa pensino dei giovani nei paesi arabi dove sono dei beniamini e suonano spesso. Partono con lunghi distinguo sulla massificazione di questa parola, sul fatto che dire giovani vuole dire poco… Li blocco. Comincio a patire tutto questo buon senso. Ho bisogno di opinioni soggettive e parziali. Come Oscar Wilde, “non so che farmene dell’obiettività”. Allora si dividono: “I giovani sono ottimisti, sento energia, più in Egitto e in Giordania che qui” dice Carl Gerges. Hamed lo corregge: “Energia?! Io sento molta depressione, pessimismo…”. Si accordano però su un punto: “È la prima volta, da sempre, che qui si avverte il desiderio tangibile di cambiare vita”. Una buona notizia. Speriamo.