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(di Simone Perotti)

“Cos’è per te il pregiudizio?”. Inizio da una domanda che immagino la trovi preparata. Joumana Haddad è una donna esposta, contro il maschilismo della società araba, contro le discriminazioni e forte sostenitrice della laicità dello Stato. Donna forte, vispa, intelligente, e cosa che metto opportunamente per ultima, bellissima, quasi algida nella sua floreale avvenenza. Questa cosa mi colpisce, perché ho appena finito di leggere “Il ritorno di Lilith”, che ho trovato invece di una passionalità travolgente, dionisiaco, orfico, sensuale. La immaginavo diversa, in effetti. Una cosa che mi dà la nausea. Veniamo giudicati spesso per quello che non abbiamo scelto: razza, colore della pelle, appartenenza a una comunità d’origine, sesso. Se parliamo delle donne, compiono un viaggio per nulla confortevole nel mondo arabo. Il pregiudizio va combattuto strenuamente, in ogni sede. Per farlo però bisogna necessariamente riflettere sulla propria identità, il che vuol dire che subire il pregiudizio è anche una circostanza fortunata, perché ci costringe a fare quello che non facciamo mai”. 

Joumana usa spesso le parole guerra, combattimento, scontro, resistere, opporsi. Le chiedo se non bisogna smettere di farla, la guerra, invece che cercare di vincerla. “La scrittura-guerra è importante, perché richiede determinazione, senza paura dello sguardo dell’altro. Io comunque, quando parlo di guerra, parlo di quella che dobbiamo fare a noi stessi, io a me mentre scrivo. Tendo a scavare, combattere con parti di me, cercare il cambiamento, altrimenti scrivo per celebrarmi, mentre devo capire me e l’altro”. Non sono molto soddisfatto della risposta, che mi pare sparigliare le sue carte. Le chiedo se anche il nemico non sia generato da noi, serva a noi, e senza di lui ci troveremmo in difficoltà. Anche qui, per uscire dal cortocircuito di una scrittrice combattente e spesso arrabbiata, mi risponde parlando di interiorità. “Il nemico è dentro. In “Ho ucciso Sherazade” do le colpe che meritano anche a noi arabi. Prima dobbiamo pensare a noi, come individui. Le nostre battaglie per altro, non finiscono mai. Quella delle donne non è finita, quelle dei lavoratori non sono finite”. La mia sensazione continua ad essere quella di poca chiarezza su questo punto, anche se subito dopo condivido pienamente: “La cosa migliore della battaglia è il suo essere il contrario dell’indifferenza”. 

Le chiedo allora qualcosa sull’essere radicali, come lei risulta essere da quel che ho studiato prima dell’intervista. “Dipende cosa ti rende radicale. Se è la giustizia, se sono le grandi questioni dell’umanità, il radicalismo è sacrosanto. Se parliamo di religione, il discorso si capovolge”.

Cambiamo tema parlando del modello di vita, economico, di sviluppo, che qui in Libano mi sembra essere evidentemente filo-capitalista e consumista, dunque filo-occidentale. “Un modello sbagliato, sono d’accordo”. Ma su questo punto non andremo oltre. Io credo nell’individuo” e qui esulto con lei. “Credo molto nel Mediterraneo. Mi sento mediterranea, provo appartenenza. Eppure questo è anche un vincolo. L’idea di un Mediterraneo unito mi piace, mi affascina, ma mi fa anche paura. Il rebus della coabitazione non è facile da sciogliere, il Libano è un paese antitetico, la gente non convive, si sopporta. Fino a che non separeremo la religione dal resto non usciremo dal dilemma”. E qui vorrei abbracciarla.

Parliamo anche di altro, come della solitudine. Ormai, per la buona sintonia e il clima tra noi, spaziamo senza un filo continuo. “Se non è imposta è bellissima la solitudine. Passa da lì l’arricchimento personale. Anche se parlare di responsabilità individuale non è sempre possibile. Non tutti hanno le stesse opportunità”. Le faccio notare che lei non ha tre braccia e tre gambe, e che se fosse vero che la responsabilità è collegata ai privilegi, i ricchi sarebbero tutti responsabili e i poveri irresponsabili. Mi risponde così: “Hai ragione, ma io, ad esempio, sono figlia di una famiglia povera e della guerra, e questo mi ha molto aiutato”. Mi pare che quel privilegio lo abbiano avuto in molti. “Ma anche dei libri, che mi hanno dato stimoli importanti per capire”. Non sono sicuro di aver capito, lei lo capisce. “Non siamo in disaccordo su questo punto” e sorride. “L’istinto di tutti, del resto, è quello di appartenere a un gruppo, su cui poggia la responsabilità. L’omologazione va combattuta. Io lo faccio scrivendo su qualcosa che è dentro di me”. Le chiedo, da questo punto di vista, se non teme il giudizio su Lilith, che è così forte nei toni e parla in modo esplicito di sesso, bisessualità, perversione, passione sfrenata. “Me ne frego del giudizio degli altri. Non sono responsabile delle loro opinioni”.

Ci interrompiamo, Joumana Haddad deve andare via. Mi dispiace, perché avrei voluto tornare su alcuni punti rimasti in sospeso. Una poetessa che genera grande interesse, molte domande, grandi questioni