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(di Simone Perotti)

“Bisognerebbe che ci intendessimo prima su cos’è il Mediterraneo…”. Citiamo tra noi i libri di Fernand Braudel, di David Aboulafia e altri, vagando un po’ con lo sguardo. È sempre così quando si arriva a dover definire il Mediterraneo. È una situazione tipicamente mediterranea, del resto, non avere certezza nella definizione di ciò di cui si sta parlando.

“Io e la mia generazione di scrittori e giornalisti e professori, soprattutto di sinistra, ci siamo dovuti confrontare con un’idea possibile di luogo dove poter vivere insieme, tra diversi. I confini del Libano non aiutano né complicano, stringono solo in un’area specifica la questione, dove cristiani e islamici, nelle varie e diverse declinazioni dei riti (che qui sono ben 18, tra Sunniti, Sciiti, Drusi, Maroniti …, ndr), tuttavia coesistono, essendo pienamente ciò che sono, senza doversi adattare in nulla di sostanziale. Io vengo dal nord del paese, ad esempio, e vivo qui, sono qui facendo esattamente ciò che volevo fare ed essendolo pienamente, liberamente. Non è facile, naturalmente, questa coesistenza, ma malgré tout siamo qui”.

Parla in francese, Jabbour, classe 1949, PhD di letteratura comparata e professore universitario di letteratura francese all’Università Libanese di Beirut. Uno che il Libano lo conosce bene.

Gli chiedo se non sia una stupida e inutile utopia sforzarsi di immaginare un mondo dove le persone vivono accanto pacificamente nonostante le divisioni, e se non siamo solo noi, chi lo spera, dei pazzi visionari. “È giusto, ha senso, sperare ancora che si realizzi un mondo così? A volte mi viene un dubbio intellettuale ed esistenziale su questo punto, lei che ne pensa?”. “Penso che non sia un’utopia, semmai un sogno possibile. Questo del Libano è un laboratorio, un esperimento, con tutti gli ingredienti del caso, almeno quando gli interventi esterni (cita l’Iran e Daesh, ndr) lo consentono. Se vogliamo, il Libano è una bella idea del Mediterraneo che ha lei in mente”. Sorride, mansueto, pacato, in ascolto, Jabbour Douaihy, che ci ha raggiunti a bordo di Mediterranea con la moglie e un’amica giornalista.

“Qui c’è qualcosa, un esprit, un carattere, un amore per la famiglia, tipicamente mediterranei. Non so definirlo meglio, ma è così. Una mitologia, un flusso, un’onda interiore che talvolta diventa violenta, magari quando si incontra con l’interno desertico. Ma accanto ci sono le montagne, la neve, il verde fresco della natura. Il Mediterraneo sembra uno spazio ancora non perverso”. Penso alle guerre, e non mi ci ritrovo del tutto, ma è bella questa sua immagine, e voglio pensare che qualcosa ci sia di ancora non sottosopra, qualcosa che può ancora essere ritenuto il contrario di una perversione umana. 

Gli chiedo del ruolo della famiglia qui, nei suoi libri, nel Mediterraneo. “Ah, qui la prima o seconda domanda è sempre di quale famiglia fai parte”. Una geosofia toponomastica, conviene con questa mia definizione. “A volte qui la famiglia diventa anche una malattia, poi dipende sempre di cosa parliamo, c’è la famiglia nucleare, e quella allargata, poi intorno, da dove vengo io, ci sono le altre famiglie più ampie, le tribù sciite e sunnite… Abbiamo un gran numero di familiari!”.

Gli chiedo del mare, se sia vero che in Libano ci si dimentica del Mediterraneo, talvolta, come mi ha detto Hamed dei Mshrou’Leila. “È vero, qui il riferimento è la montagna, siamo arabi, veniamo dall’interno”. Provo a far riferimento ai fenici, grandi viaggiatori e grandi navigatori, ma glissa e minimizza, come fanno tutti da quando sono qui e ne parlo. Provo a rintuzzare che anche gli arabi sono stati navigatori e viaggiatori, ma faccio fatica perfino a stabilire questo ovvio punto fermo. Mi pare che anche qui sul tema del mare siamo un po’ lontani. “Noi, ad ogni modo, siamo arabi, non fenici”. E direi che non vale la pena insistere su questo.

Gli chiedo se nella letteratura libanese vi sia uno spazio per qualche racconto nautico, marino, sui marinai e i viaggiatori, visto che hanno navigato e viaggiato molto. Mi dice di no, e sembra anche un po’ stupito della domanda. Gli chiedo allora della guerra, argomento centrale o meno di quasi tutta la letteratura libanese, com’è anche ovvio. Mi domando a voce alta se sia possibile attendersi una letteratura che non descrive o ruoti intorno alla guerra, prima o dopo e se questo non sia anche utile a superare le difficoltà attuali. Si fa serio e compreso, la domanda gli piace.

“Vede, penso che la letteratura non sia e non debba essere una medicina. Anche se devo ammettere che la letteratura spiega la guerra meglio della storia, e in questo aiuta a sublimare”. Un po’ contraddittorio questo concetto, che comunque registro come interessante e da riflettere. “Per noi, l’assunzione di una consapevolezza come popolo libanese, è susseguente al 1915, con cui siamo diventati coscienti e al tempo stesso abbiamo imbracciato il fucile, se vogliamo. Il mio ultimo libro, tuttavia, anche se descrive tangenzialmente l’attentato ad Hariri (presidente libanese, di una grande famiglia di immobiliaristi e di ricchi imprenditori, vittima di un’autobomba nel 2006 proprio a pochi passi da dove è ormeggiata la nostra barca, ndr) non ha come centro la guerra”.

Gli chiedo del ruolo degli intellettuali. “Ce ne sono stati alcuni impegnati, che hanno rischiato la vita, o l’hanno perduta, per difendere le loro idee. Come Samir Kassir, ad esempio”, che era proprio uno scrittore e difendeva l’idea di una società che non dovesse essere contesa tra tagliagole radicalizzati o dittatori, un destino tragico in entrambi i casi, e che per questo fu accusato di essere filofrancese o filoamericano. In realtà la visione della società araba come potenzialmente democratico o fatalmente dittatoriale è una delle grandi domande senza risposta univoca di questa parte del mondo. “Però vede, qui ognuno difende il suo orticello, ed è talmente preso in quest’opera che non ascolta. La politica qui non è permeabile dall’opinione critica”. 

Gli chiedo che effetto fa se io dico “Stati Uniti del Mediterraneo”. Lui coglie subito il punto e mi racconta che fa parte di un gruppo di amici intellettuali che ragionano proprio sul dialogo intermediterraneo, e cita Lang e Hollande come riferimenti con cui hanno avuto a che fare nel recente passato. “Alla fine sa cosa penso? Che comunque, anche se non tutti i libanesi sono così aperti a concepire la diversità e a dialogare con l’ovest all’insegna della comune comprensione, in Libano siamo decisamente più aperti sul tema del resto degli arabi”.