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(di Simone Perotti)

IstanbulFa impressione guardarla conoscendo la sua storia. Somiglia alla vita, viaggiatrice distratta e sciupona, che dimentica perle nel cavo delle rocce, nelle corolle dei fiori che attorniano il sentiero, ma tinge di sangue i propri passi per la ferita che non si rimargina, trascina le viscere fuoriuscite dal ventre fino a perderle qua e là, camminatrice vuota è la vita, come questa città, cimitero d’interiora e di gemme, obitorio di cuore spaccato e gioielli. Ricordo di aver pensato a queste immagini a Gerusalemme, ignominia dell’umanità, condominio iracondo di devoti che predicano bontà mentre ammazzano, conseguenza della folle immaginazione del nulla, la grande scusa, la grande metafora del vuoto su cui, per giunta, bastonare e uccidere. Laggiù, nel profondo levante, era per Dio. Qui per cos’è?

Per cosa queste case meravigliose e cadenti, questi vicoli stretti e illogici, mai pensati prima di essere segnati, dove sono corsi tutti urlando, e dove oggi protestano tutti sotto lo sguardo di schiere di giannizzeri abbigliati a soggetto da divise o vestiti, agenti o studenti, l’eterno braccio ufficiale e borghese del potere? Cosa è accaduto quaggiù per ogni epoca?

Istanbul, la città della gente, la babele di razze, il coacervo di alfabeti, di lingue, parole, silenzi e danze sull’asse di una gamba soltanto, che ruota, testa reclinata, ma anche rezza, orgoglio, pregiudizio, sospetto, tutto troppo vicino, tutto in movimento, tutto che si sfiora, si affianca, s’invita a entrare. Città di tempo mutevole, città di vento e creste, unita dal mare, l’unica forse che il mare non ha mai tenuto separata, perché due labbra prima o dopo si chiudono, rinunciano al bacio per ritrovarsi. Città di giovani gentili, qualche schiaffo immeritato, sogni, incoscienza di ciò che precede, l’immemore risorsa, l’eterno rischio della dimenticanza, belli e smemorati che osano serenamente, non sanno di farlo, forse perché chi proibisce è sempre più angosciato di chi disobbedisce.

Istanbul, inferno per i topi, città di gatti, curati, una coppetta di latte ogni palazzo, crocchette che puoi comprare sfuse scegliendo i sapori, come fossero riso, pasta, bulgur, pesce del Bosforo, gatti sereni, senza allerta, troppo caos fa rasentare l’incoscienza, sfrontati coi pochi cani, vezzeggiatori di uomini, gatti parlanti, struscianti, invocanti, sorridenti, stonati come i Muezzin eppure cantanti.

Istanbul che freme, città sull’orlo di un collasso, terremotata come nessun’altra, bruciata come nessun’altra, lignea, carbonica, fossile, oleosa, fangosa, nevosa, polverosa, e nel contempo lucida, lineare, disegnata, sfavillante, ritta sul pontile, con lo sguardo a mare, una mano a tenersi il cappellino, un’altra a trattenere il vestito leggero, a fiori, che il vento stende e fa vibrare a bandiera, in attesa di un traghetto che la conduca da un amore che è sempre sulla sponda sbagliata, sempre su un’altra riva, sfuggente e desideroso, dunque che non raggiunge, ma attende. Si farà trovare? Chissà. Nessun motivo è buono per non tentare.

Istanbul che non ruba, semmai truffata e incolpevole, fatta tutta d’ascese e calate, di fiato e sospiro, mai impaziente, affaticata e ristorata, profumata di cibo, invitante, esperta della promessa più che della conferma, perché lo sguardo è più facile del bacio, la parola del palpito. Città di quartieri, paesi nella città, capitoli del libro, identici ingredienti d’infinite portate, distinzioni minime tra strade che offrono tutt’altro, distretti di artigiani che forgiano lo stesso oggetto da sempre, nella stessa via, nella stessa bottega, esperti d’una cosa soltanto, una vita dedita a una catena, un’elica, un coltello che invece di tagliare lacci, li lega.

Istanbul città del Mediterraneo, cerniera, simbolo, bandiera, molteplice come lui, azzurra come lui, umida come lui, salmastra come lui, divisa come lui, immane, d’improvviso clamorosa e silenziosa come lui, con la stessa sdrucita e maestosa saggezza, che dà retta a chi ha torto qualunque sia il suo credo, più saggia di chi è vicino a Dio, dunque, più divina di lui, e infatti come il Mediterraneo benedice salme ogni giorno, battezza neonati, assiste malati, teatro stesso del ciclo vitale, che per lei è più ampio, dalla cellula all’immensità, e per noi è il solo viaggio della più insignificante delle cose dell’universo: la nostra vita.

Istanbul città faticosa, sudata senza maleodorare, pulita ma che non si lava, un po’ colpevole senza peccato, peccaminosa comunque, perché solo l’alto mare e il deserto sono innocenti, città che fiata a raffiche il suo sfinimento, il suo stordimento, il suo spaesamento. Istanbul da prendere a modello, chi di noi avrebbe mantenuto l’incanto dopo quello che ha visto? Noi capitoliamo per molto meno, ci arrendiamo e diciamo che basta per un nulla, a confronto, mentre la vita qui non si ferma, gli amori non diminuiscono, i sogni si fanno progetti in cui è sempre possibile trovare qualcuno che crede. Come fa Istanbul a rigenerare le sue cellule morte da secoli, calpestate, arse, svanite, sparse nel vento della Marmara? Come fa a crederci ancora, come fa a non ridere d’amaro disincanto, dopo tutto quello che è trascorso? Non ci è dato saperlo.

La telecamera cala su di lei dal cielo, vuole vederla da vicino, capire… Prima dell’atmosfera non la distingue, poi la vede macchia sulla mappa, poi netta sul profilo del mare, l’obiettivo stringe velocissimo sui quartieri, su uno soltanto, sul reticolo di un isolato, su una via, su una persona, sui suoi occhi, su unoIl punto non può capire la linea. E soprattutto non sa che la linea non conosce la matassa intricata. Per addormentarsi, la sera, ormai tardi, Istanbul prova da sempre a contarne una distesa infinita