IMG 4800

 

 

(di Simone Perotti)

“Mi sono trovato di fronte al mare, per la prima volta, solo a 17 anni, ma lo avevo già ‘visto’. Attraverso i racconti e le parole”. Burhan Sonmez, ex avvocato impegnato e martire dei diritti umani, oggi scrittore, un uomo educato, delicato, sobrio, ma che ha dentro una grande energia, e ragiona da poetaCon lui, all’Istituto Italiano di Cultura, iniziamo a dialogare e siamo già nel pieno del nostro ragionamento sul Mediterraneo, tanto che da qui in poi, gradualmente, non senza dirci molte altre cose, ce ne allontaneremo. 

Mi racconta della prima gita scolastica, del momento esatto in cui svoltando per le curve della strada che conduceva verso la costa sud orientale della Turchia, aveva visto per la prima volta il mare. “Mi sono detto, ‘mai più vivrò senza‘. Io ero cresciuto a latte, pane e parole. Non avevamo l’elettricità, al centro dell’Anatolia, nel nostro paese non c’era nulla. Solo immagini lontane, da immaginare, di principi e principesse in un grande castello che univa due mari, il Nero e il Bianco (gli ottomani, oggi turchi, chiamavano il Mediterraneo Mar Bianco, ndr). Era Istanbul, ma lo avrei saputo molti anni dopo”.

E cosa immaginava il piccolo Burhan? “Fate, geni, maghi, mostri, giganti, tutti appollaiati tra questi due mari”. E li hai poi trovati i giganti, da grande? “Sì. Li ho trovati. Li ho messi, in gran parte, nel mio libro Istanbul, Istanbul. I giganti sono tanti. Alcuni sanno di esserlo, fanno cose orribili. Altri compiono gli stessi atti orribili, ma non sanno nemmeno di esserlo. Un po’ come la differenza, in positivo, tra uomini e animali. Gli animali sentono il proprio dolore, ma non quello degli altri. Gli uomini sentono anche quello altrui, sono dotati di compassione”.

Burhan, quando parla di dolore, si vede che riflette, scava dentro di sé, dove deve trovarne parecchio, a dispetto della sua aria serena e rilassata, priva di ogni forma di cattiveria, odio, voglia di riscossa.

Qual è il primo gigante della Turchia? “Il denaro, al sua rincorsa spasmodica, la sua illusione che genera sofferenza. E poi la perdita della tolleranza”. Ma sono cose di oggi o di sempre? “Le cose sono peggiorate, sai. Il capitalismo è tragico, come anche la globalizzazione del dolore. La globalizzazione rende mondiale la speranza, ma anche il dolore”.

Come se ne esce da questa sofferenza Burhan? “La conoscenza non basta. Serve una cosa in più, un passo ulteriore: la consapevolezza. Ovvero la coscienza storica calata nell’uomo. E per aiutare la gente a capire e cogliere il senso serve mostrare la realtà dei fatti ai contemporanei. Dunque la parola chiave è testimonianza”. Sonmez è così: parla lentamente, sceglie le parole, poi ha delle accelerazioni brucianti nei significati, e si vede che non improvvisa.

“Del resto ci sono due tipi di realtà. La prima è quella che vediamo intorno a noi, dove viviamo, il tempo, il luogo. La seconda è dove immaginiamo di vivere, dove vorremmo vivere, dunque dove vivremo. In tutto questo, in questa èra dei media, le informazioni ci invadono, e rendono tutto uguale. Uniformano, omogeneizzano. Tutti sono intellettuali, tutti scrivono sui blog frasi che ritengono cariche di senso. E poi c’è l’ambiente accademico, che non insegna niente, dà solo modelli da seguire. Anche se, grazie al cielo, ci sono intellettuali liberi da tutto questo, che sanno districarsi tanto dai modelli quanto dall’overdose informativa”.

Gli chiedo di spiegarmi meglio cosa voglia dire riguardo il mondo e il sapere accademici. “I Phd, i master, non sono la via. Serve gente che sappia andare in direzione ostinata e contraria (letterale, ndr). Ad esempio, molti intellettuali della sinistra, qui in Turchia, hanno perso la capacità di innovare, di immaginare, e hanno perduto il loro ruolo. Dopo Gezi, tuttavia, stanno nascendo nuovi intellettuali, la classe giovanile emergente, che tutti ritenevano dei fannulloni buoni a nulla, sempre coi cellulari in mano, e che invece quei giorni erano lì, in piazza, e hanno dato, a loro stessi e al Paese, una grande dimostrazione di esistenza. In Turchia, che milioni di persone scendessero in piazza, non era mai successo neanche una volta”.

Gli chiedo come mai qualcuno dice che quel movimento però non ha generato altro, dopo, e si è un po’ perso. E’ vero? “Assolutamente no. Era la prima volta, ed è stato un movimento spontaneo. La novità è che nessuno ha avuto paura. Ognuno portava cibo, tende, tutto gratis, per tutti. Venivano i poveri a mangiare qualcosa. C’erano tutti, dagli anarchici ai socialdemocratici, dai curdi ai kemalisti, dall’islamico moderato all’elettore del partito di governo che però non condivideva. Un mondo nuovo, per quindici o venti giorni. Quello che è stato fatto è dimostrarci, dimostrare a tutti, che il Paese non è inviolabile, e che esiste un altro sistema per vivere. Poi, certo, dopo una ventina di giorni, notte e giorno in piazza, siamo andati a casa. Ma questo gesto, e tutto il suo ampio significato, resta. E tornerà…”

Suona come un avvertimento. Non sarebbe meglio auspicare che non sia più necessario? “Certo. Ma se tra cento anni guarderemo indietro, ad oggi, vedremo le vittime, gli otto bambini morti, gli ottomila feriti, i quattromila imprigionati. E vedremo anche la voglia di non lasciare il potere in mano alla corruzione, dunque credo che sia importante sapere che se serve, quando sarà il momento, il movimento di Gezi tornerà”. Ecco la forza enorme di quest’uomo, imprigionata nel corpo di un pacifico scrittore, che viene a galla.

Gli chiedo di un noto episodio degli anni ’90, quando era un avvocato impegnato nei diritti delle minoranze. Fu picchiato, imprigionato e molto probabilmente torturato, tanto da essersi dovuto recare in Inghilterra in un centro di riabilitazione per vittime delle torture. E’ rimasto all’estero dieci anni, da quel momento, per poi tornare nel suo Paese. “Ma vedi, essere in pericolo, se hai idee politiche diverse da quella egemone, se ti occupi di diritti umani, è normale in paesi come la Turchia. Devi saperlo. Qui abbiamo tantissimi prigionieri politici in galera. Solo nel 1980, nel colpo di Stato, ci furono 500.000 torturati, e nelle guerre contro il popolo curdo ci sono stati in vent’anni circa, 40.000 morti. Dunque cosa vuoi che ti dica. A quei tempi ero un avvocato, attivo su molte battaglie, dunque ero un target. E sono stato fortunato. Per quanto mi sia accaduto, su cui non voglio scendere in particolari scabrosi, sono pure stato fortunato. Molti miei amici, purtroppo, non hanno avuto identica fortuna. Dopo dieci anni sono rientrato. Avevo passaporto inglese, potevo restare. Ma il mio paese è questo, la mia patria è questa…”.

Parlo un po’ del nostro viaggio, del Mediterraneo, anche per evitare di mettergli la pressione delle confessioni e dei ricordi. “Non so se quando viaggio per l’Europa trovo le cose che dici. In Italia sì, in Spagna… Ma la gente non pensa mai al Mediterraneo tutto insieme. Questa visione va creata, e voi fate benissimo a tentare questa scommessa. Il canale che avete scelto è perfetto: cultura, letteratura, arte sono gli ingredienti giusti”.

Vorrei stare ancora con Burhan, dialogare con lui sembra un balsamo. Come angustiarsi della vita dopo essere stati qui ad ascoltarlo? Come non prendere coraggio dalle sue parole?

Il Mediterraneo è un luogo dell’utopia, dunque impossibile se vogliamo… ma è possibile da immaginare, dunque è una giusta utopia, qualcosa di profondamente utile. Basta il fatto che quando parlate di una comune cittadinanza, quando parlate di un Mediterraneo unito, la gente ci pensa per la prima volta. Dunque il Mediterraneo sorge dentro di loro con le vostre parole. Non è splendido?”

Ci salutiamo concordando che il Mediterraneo che abbiamo in mente non può essere quello degli Stati, ma forse quello delle città costiere, che da sempre ne sono artefici e vittime. Il Mediterraneo delle città