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(di Simone Perotti)

Marsiglia è una città complicata”. Me ne sono accorto la prima volta che l’ho visitata, prima ancora di conoscerne le suggestioni letterarie e le problematiche multirazziali. Basta venire qui e ci si accorge subito che c’è un’energia, non solo positiva, e che quella potenza umana da qualche parte deve scaricarsi. E Bruno Le Dantec, scrittore marsigliese, me lo conferma: “Si ama e si odia varie volte al giorno, cosa che non avviene con il resto del Paese. Marsiglia non è la Francia”. Cerco di indagare meglio questa affermazione, che francamente mi sono sentito dire dovunque in questo Paese, nei Pirenei Atlantici come in Provenza, e ancor più in Bretagna e fino a Saint Malò. “Esiste un sentimento dell’essere marsigliesi, certo, ma forse è peculiare. Il marsigliese è qualcuno che ha fatto dei passaggi, e che in sé conserva qualcosa di straniero, che viene da altrove”.

Quest’ultima frase mi colpisce, provo a ripeterla modificata sul tema dell’essere mediterranei, e funziona perfettamente, ne conviene anche Bruno: “Bisogna avere qualcosa di straniero per essere mediterranei”. Bene.

E a proposito di stranieri, nel libro scritto con il giovane senegalese Mahmoud Traoré, Partire (Baldini&Castoldi) Bruno ha voluto raccontare una storia vera, quella di un migrante che tra infinite difficoltà e sofferenze riesce a partire dall’Africa diretto in Europa. “Un viaggio di tre o quattro ore, stando larghi, che invece a lui costa tre anni e mezzo di vita”. Lo ha scritto a quattro mani, per rispetto: “A un ragazzo a cui hanno sottratto tutto, non potevo rubare anche la sua storia”. Si sono conosciuti e sono diventati amici, è nata la necessaria fiducia, poi Le Dantec ha registrato trenta ore del suo racconto, e lo ha messo su carta, per poi cercare riscontri, verifiche, e infine arrivare al testo. “Tutti parlano delle migrazioni e dei migranti. Ma loro non parlano mai. Mahmoud è uno di loro, la sua è una storia vera, e io ho voluto aiutarlo a raccontarla, a comunicare con altri africani che vogliono venire a nord, mettendoli in guardia, e con la gente che vive qui, con noi, perché possano conoscerlo”. Nel suo libro c’è un sottotitolo: Un’odissea clandestina. Il parallelo mi salta subito agli occhi, mi piace, ma mi fa anche trasalire. Gli chiedo di spiegarmela meglio, facendogli notare che Odisseo era un re, che tornava a casa con la sua flotta da vincitore, e che – con Kavafis – forse non aveva tutta questa urgenza di rientrare a Itaca. “Hai ragione. Questi ragazzi però non fuggono solo dalle guerre. Questa cosa è difficile farla capire. Per molta parte dei ragazzi africani, la molla che spinge alla partenza non è solo la necessità. In tanta parte dell’Africa – io conosco bene quella francofona – si dice ‘andare all’avventura’ per intendere la partenza verso chissà quale luogo, un altrove. È una spinta ìnsita nella natura e nell’energia giovanile. Molti fuggono da carestie, guerre, fame, ma se non avessero questa spinta tradizionale, vorrei dire culturale all’avventura, non so se partirebbero, tanto meno così tanti. Il loro è una sorta di ‘sentimento del mondo‘. Un sentimento che, quando ho conosciuto Mahmoud, ha fatto risorgere in me l’antico desiderio di andare. Sono partito per il Sud America. Solo che io avevo un passaporto, ero un turista. Non sopportavo di essere considerato un turista. “

Mi chiedo ad alta voce se questo confine, questa nostra epoca, non sia allora anche una sorta di confronto, e di frizione, tra chi ha perduto questo ‘spirito del mondo‘, questa voglia di partire all’avventura, e chi invece ce l’ha. Bruno si illumina, gli piace molto questa idea, annuisce. “Molto bello questo, ci penso, ma credo sia proprio così. Ed è difficile far rinascere questo spirito nel nostro continente. Certo, per farlo, abbiamo forse bisogno del crogiolo mediterraneo, che è una specie di interfaccia, di filtro, tra queste diverse densità”.

Poi Le Dantec si racconta: “Mi sono reso conto della mia mediterraneità, per la prima volta, in Inghilterra, per le cose più semplici, mi mancava l’occitano, mi mancava il cibo. Mi mancava, se vogliamo, quella che io chiamo una certa certa brutalità marsigliese, che viene dalla frizione e dalla commistione delle culture”.

E il resto della Francia dov’è? Cos’è? “Parigi è lontana, sta lassù, in alto. Ed è vittima del suo centralismo. Del Mediterraneo ha un’idea un po’ idealizzata, da un lato, e per altri versi folklorizzato e ignorato”.

In ultimo accenniamo alle Cité, i quartieri settentrionali chiusi a polizia e legge nazionale, spesso in mano a enclave che si combattono, non estranee a una profonda commistione con mafia e criminalità comune. “Ah! quei quartieri sono fuori controllo. Lì se un medico deve andare a curare una persona deve fare una sorta di dogana, spiegare dove va, perché, si fanno verifiche e poi lo lasciano entrare. C’è una marea di gente senza documenti, lì. E le istituzioni fanno di tutto per ignorarli. Sono solo preoccupati del restyling di Marsiglia, di collegarla alla Provenza, anche se con la Provenza c’entra poco. In quei quartieri agisce solo la società civile, ci sono missionari, associazioni che operano. E da quelle parti, ovviamente, nasce l’odio, che non è degli stranieri immigrati, ma della seconda o terza generazione dei nati qui, dunque dei francesi non più stranieri”.

Mentre Bruno parla, e poi dopo, quando ci salutiamo, penso che, come in Libano e in Israele abbiamo avuto contatto coi campi di profughi, con i territori occupati, con la sospensione della legge e della giustizia, anche qui, nel cuore dell’UE, possiamo parlare di confini, muri, separazioni. Ognuno di quei reticolati, ognuna di quelle dogane, è il ritratto inequivocabile di un limite, di una mediocrità. Di un fallimento.