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(di Simone Perotti)

Due settimane in una città che ha diviso gli animi e le percezioni dell’equipaggio. Non molto utile elencarle tutte. Diciamo: alcuni neutri, alcuni favorevoli e un contrario. A supporto ci sono giunti i nostri intervistati, che si sono espressi così: “città (popolo) senza speranze”, “patina di convivenza, poi gratti e nessuno ama l’altro.” “Coesistono, non coabitano”. “Beirut non è una città di mare”. “Non più connessi con l’identità araba e neppure con una nuova identità”. Chissà…

A Beirut abbiamo girato in lungo e in largo, per quanto essendo così grande è impossibile tracciarne un profilo esaustivo. Qualche bella galleria d’arte, voci di un mondo che a qualcuno è parso muoversi, a dispetto della mancanza di speranze (un esperto di mondo arabo ha tracciato un paragone molto penalizzante con la società tunisina, ad esempio, in piena proiezione futura speranzosa). Certo è che qui la guerra interna ed esterna ha pigiato duro sul tasto della distruzione, e questa è un’attenuante forte. Mura crivellate di colpi di mitra dovunque. Un assetto urbano folle, un traffico e un inquinamento fortissimi. E il mare, assente, capace di una terapia troppo blanda contro le ferite del tempo.

Speculazione edilizia e malaffare hanno creato quartieri fantasma, all’apparenza sfavillanti, di grattacieli vuoti eretti solo per raccogliere i finanziamenti disponibili, come quello di Zaytuna Bay, dove siamo ormeggiati. Ad alcuni queste opere architettoniche sono piaciute, qualcuno vorrebbe addirittura viverci, qui. A me che stendo queste righe tentando di metterci dentro tutto, è parso una rappresentazione dell’inferno in terra, lontano dalla natura, senza una piazza che faccia da agorà, senza i vecchietti sulla panchina sotto gli alberi o i piccoli pescherecci che fanno tra mare e terra come le api sui fiori. Ma questo è, anche, il Mediterraneo. Quando ci sono troppe divisioni la piazza è solo un rischio, ognuno si fa la propria nel quartiere. 

Contraddizioni, visioni dissonanti tra osservatori, sovrastruttura di modelli e di possibili risposte. Certo, lo schema sociale del denaro, del lavoro, del successo, dell’apparenza (mai viste, a un tempo, tante auto di lusso e donne rifatte) paiono diffuse al massimo grado, trasversali a culture e gruppi d’appartenenza, e spinge verso una direzione assai poco mediterranea, a misura, vivibile se non nell’euforia un po’ posticcia, ridanciana e nervosa che abitualmente fa da ancella alla disperazione. In un’area già così difficile, segnata da nuovi dislivelli e infiniti scontri, sempre sull’orlo di qualcosa che non somiglia mai a un vero domani, si rischia di avere sempre il nemico alle porte, o di essere sempre un nemico alla porta del vicino. Troppe confessioni religiose, del resto. Troppi millesimi condominiali a regolare il consenso, troppo poco laicismo delle istituzioni. Ma forse vediamo oggi un “non ancora” che tende a diventare qualcosa. Ce lo auguriamo, come se lo augura uno dei nostri intervistati più attenti. Sulle rive di Zaytuna Bay un tempo c’erano gli ulivi, che sono stati sradicati per far posto alle palme care a quel sud arabo che qui pompa molto denaro e chiede spazio, anche estetico. Come c’era un suq, pare molto antico e molto bello, raso al suolo per lasciar posto a un mall coi marchi di Hugo Boss e Bottega Veneta. Il quartiere armeno, forse una delle poche parti della città dove si sente una comunità, è fatiscente, reso originale solo dal suo essere del tutto privo di ristoranti, perché gli armeni mangiano a casa loro. 

Fuori Beirut, qualcosa cambia. Un paese lungo e sottile, verde e fertile, la grande schiena montagnosa sull’azzurro del cielo, la verdura, il clima, alcuni piccoli centri sul mare. Tripoli, chi di noi l’ha vista, l’ha definita bella, molto islamica, incasinata, vera. Byblos turistica, con un porticciolo da Mediterraneo sepolto, una splendida libreria, un castello crociato e gli scavi archeologici, qualche sprazzo di autentico da cercare con cura. Sidone, con il suo suq.

Ho detto in avvio di queste note di viaggio che si tratta di una visione parziale. Ad alcuni questa è parsa una città piacevole, piena di vita, con splendidi esempi architettonici contemporanei, gallerie, fermento giovanile, gente disponibile, gentile e simpatica. E su questo possiamo chiudere convergendo: i libanesi sono sempre pronti ad aiutarti o indicarti una via, ad ascoltarti e a sorriderti, parlano quasi sempre un’altra lingua oltre la loro. Va anche detto che in tre anni di viaggio per il Mediterraneo, potremmo dire cose simili dei greci, dei turchi, dei georgiani, dei bulgari, dei rumeni, degli isolani e dei continentali. L’idea che abbiamo in testa per questa nostra casa comune è qui. Possiamo pensarla anche diversamente, sentirci a casa di più o solo parzialmente in un luogo, essere discordi nel giudizio su ogni cosa, tranne che sulle persone. Sono loro la vera anima del Mediterraneo, l’unica speranza immarcescibile di un mondo compromesso.

Abbiamo trovato qui il Mediterraneo? Anche. Ci ha delusi, rapiti, affascinati, dissuasi, sconcertati? Dipende. Dall’occhio di chi guarda, certamente, ma anche dall’idea di vita che abbiamo in mente. E scorgiamo che le diverse ipotesi non collimano, che ognuno di noi è disposto a tanto, o a poco, o a qualcosa di diverso, pensando al modello di esistenza e di condivisione. Dunque utile, ma su questo non c’era da dubitarne. Una sera, a cena in una bettola del quartiere armeno ho parlato di sogni, aspettative, speranze, cambiamenti con una compagna di viaggio. È stato bello, utile, molto adatto, nei toni, nei modi, nelle sensibilità, a quel che ho in mente quando penso allo schema mediterraneo e ai suoi valori. I luoghi dove arriva Mediterranea sono da conoscere, da scoprire, da approfondire. Come il suo equipaggio. Ognuno di noi, lo sa.