IMG 0848“Ecco il caffè, signore, caffè in Arabia nato / E dalle carovane in Ispaan portato. / L’arabo certamente sempre è il caffè migliore (…) A farlo vi vuol poco; / Mettervi la sua dose, e non versarlo al fuoco. | Far sollevar la spuma, poi abbassarla a un tratto / Sei, sette volte almeno, il caffè presto è fatto.” (Carlo Goldoni)

Il caffè turco è dunque Patrimonio dell’Umanità. In seguito alla proposta avanzata dal governo di Ankara, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura ha iscritto il ‘Turk Kahvesi’ nella lista beni immateriali che appartengono al patrimonio di tutta l’Umanità. Il Turk Kahvesi, dice il presidente della Commissione Ocal Oguz, “e’ famoso in tutto il mondo per il suo stile, il metodo di preparazione, la presentazione tradizionale”.

Conosciuto in tutto il bacino del Mediterraneo, ma esportato anche nell’entroterra di Asia, Europa e Africa, è un’eredità dell’Impero Ottomano, dal fascino accattivante per i viaggiatori, gli intellettuali e gli artisti di tutto il mondo. “Nemo profeta in patria” si dice, e anche per il caffè turco vale il detto: il chai, il tè forte e aromatizzato a base di zenzero e cardamomo, con aggiunta di altre spezie come la cannella e i chiodi di garofano,  è in Turchia molto più popolare del caffè.

La prova del caffè, un tempo di uso comune nelle famiglie turche, si metteva in pratica in occasione di una proposta di matrimonio. L’abilità culinaria della fidanzata era messa alla prova dai genitori dell’aspirante sposo, i quali richiedevano alla ragazza la preparazione di un caffè turco di ottima qualità. Oggi, pur avendo perso completamente la sua valenza contrattuale, l’offerta di un buon caffè ai genitori del fidanzato fa parte dei rituali simbolici delle famiglie turche.

La preparazione del Turk Kahvesi ha in sé qualcosa di esoterico e magico: i chicchi di caffè vanno macinati molto finemente, fino a ridurli in una polvere sottile da far bollire in un piccolo bricco d’ottone (si chiama ibrik, guarda caso..) con acqua e zucchero. Si può aggiungere qualche spezia, come il cardamomo. Il caffè deve bollire e sbollire per tre volte e poi va versato in una tazzina in porcellana rivestita di ottone. Le bollicine di schiuma che si formano sulla superficie, sono, secondo i greci, tante quanti i baci in arrivo. Non dimenticate di farlo riposare qualche minuto prima di berlo: in questo modo la polvere di caffè si deposita sul fondo e, una volta bevuto il liquido denso e vellutato, sarete in grado di leggere in quei fondi il vostro futuro: è la caffeomanzia, arte divinatoria praticata per secoli in tutti le terre dell’impero d’Oriente.

Ma quando si parla di caffè non sempre si intende semplicemente la bevanda; a volte si vuole indicare uno spazio, un ambiente, un luogo nel quale le persone possono recarsi per bere o mangiare e scambiare qualche parola con gli altri avventori. A Parigi, nel 1992, la candida e forse incauta affermazione del filosofo Marc Sautet, che confessò in pubblico di aver l’abitudine di incontrare gli amici in un caffè di Place de la Bastille, discorrendo con loro di temi filosofici, favorì il nascere del primo Cafè Philosophique. In breve tempo, attorno a Sautet, tutte le domeniche si raccolse un numero sempre più alto di persone, desiderose di scambiare le proprie idee con gli altri, parlando dei grandi temi della vita, ma anche di attualità e di argomenti meno impegnativi. Si arrivò a superare le 200 persone alla volta e molti si portavano la sedia da casa. 

In un caffè. Con un caffè. A parlare di filosofia e di vita. Ad incontrare gli altri. Come un viaggio.